Sono ad una sessantina di chilometri dalla capitale i ribelli jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante: dopo la caduta di Mosul e Tikrit, la conquista di varie regioni nel nord del Paese, sono arrivati al confine siriano, al valico di al Qaim. Sotto attacco anche la raffineria di Baiji, la più grande del Paese. Tutto ciò – secondo il premier iracheno al Maliki - sarebbe parte di un complotto terroristico. La violenza jidaista colpirà come un boomerang l’Occidente e gli altri Paesi che hanno sostenuto il terrorismo, ha tuonato, il presidente siriano Assad, probabilmente riferendosi anche alla crisi irachena. Allarme dell’Onu per la crisi umanitaria, classificata ormai al più alto livello 3. Un milione e mezzo gli sfollati che stanno migrando e che necessitano di acqua, cibo e servizi primari. Segna il passo la diplomazia internazionale per fermare questa guerra. Gli Usa, oltre ad inviare 275 soldati in difesa della loro ambasciata a Baghdad, non hanno risposto all’invito del governo iracheno di sostenerli con raid aerei. E, crescono le critiche verso Obama. La stessa Germania ha chiesto a Washington di assumersi le sue responsabilità. Anche l’Iran temporeggia e collega alla questione nucleare un intervento accanto agli Usa in Iraq. Mentre gli Emirati arabi hanno ritirato l’ambasciatore a Baghdad e incolpato al Maliki di una politica di esclusione confessionale verso i sunniti. E, Cameron da Londra ammonisce: la crisi in Iraq e un possibile regime islamico radicale riguarda anche noi.