Periodicamente il tema riaffiora.
Le accuse all'imbarbarimento della nostra cultura televisiva riemergono quando viene annunciato un nuovo programma televisivo più spregiudicato, o quando qualche personalità - come fece la signora Ciampi - si lascia andare a uno sfogo contro le "deficienze" della tv.
In queste settimane è stato il film di Erik Gandini ("Videocracy") a farci tornare sul tema. Il segretario del Pd Dario Franceschini, dopo aver visto la pellicola, ha proposto addirittura di sospendere la pubblicazione dei dati Auditel dei telegiornali, per bloccare la guerra dello share e il progressivo degrado dei contenuti almeno nell'informazione.
Ma in che senso si può dire che l'Auditel è responsabile dell'abbassamento della qualità della nostra televisione? Auditel nasce nel 1984 per dare un valore economico agli spazi pubblicitari, il cui mercato era allora in grande espansione dopo la nascita delle reti commerciali. Il sistema permette di ottenere, attraverso l'osservazione di un campione rappresentativo dei telespettatori, una stima dell'ascolto televisivo minuto per minuto. E fin qui nulla da rilevare (se non qualche problemino metodologico che qui tralasciamo). Il fatto è che nel mercato televisivo la concorrenza non funziona bene come nei manuali di economia. E non è quindi corretto utilizzare i dati di ascolto come misura di gradimento, cosa che invece si fa sempre più spesso nella prassi dei commentatori e tra i professionisti del settore.
Se ci sono buoni dati Auditel - si interpreta - vuol dire che il programma piace, gli autori c'hanno azzeccato, e la gente chiede di averne di più. Bisogna invece ribadire che i dati Auditel non possono essere interpretati come dati di gradimento. Come ha detto bene Roberta Gisotti qualche tempo fa su Repubblica, è probabile addirittura che in alcuni casi i picchi di audience siano in realtà dei picchi di disgusto.
Pensiamo agli altissimi ascolti che si registrano spesso in corrispondenza di risse verbali o fisiche, situazioni particolarmente incresciose o imbarazzanti. Se una interpretazione si può dare dei dati Auditel, si può dire che essi misurano l'attrazione esercitata in un certo momento da un programma sugli spettatori. Auditel non ci dice perciò se le persone realmente gradiscono o considerano positivamente programmi come il Grande Fratello o l'Isola dei Famosi (per citare quelli tra i più discussi). Ciò che ci dice è che ne sono fortemente attratti.
È chiaro che un sistema che premi i programmi unicamente sulla base della loro attrattiva momentanea creerà dei professionisti che lavorano per massimizzare questa attrattiva, e non invece la soddisfazione o il gradimento degli spettatori, che sono una cosa diversa. Professionisti di questo genere cercheranno di attrarre l'attenzione degli spettatori utilizzando con sempre maggiore intensità e spregiudicatezza la novità, la sensazionalità, il conflitto, la devianza di vario genere e altri criteri di "notiziabilità" che la ricerca sui media ci descrive da decenni. Questa stessa ricerca ci dice che le persone che vengono attratte con questi meccanismi non per forza restano poi soddisfatte della loro fruizione, ma che anzi - per quanto paradossale possa sembrare - le stesse leve usate per attirarle paiono loro volgari o di bassa qualità successivamente alla visione. Lo devono sapere bene anche alla Rai, dove da anni esiste una rilevazione quotidiana sulla soddisfazione degli spettatori (IQS, Indice di qualità e soddisfazione) i cui dati non sono stati mai resi pubblici, nonostante numerose richieste e promesse di pubblicazione.
Viene il legittimo sospetto che la ritrosia derivi dall'imbarazzante contrasto che essi creerebbero con i dati di ascolto. Una riflessione sul ruolo dell'Auditel nella cultura italiana deve partire perciò dalla comprensione della sostanziale differenza che c'è tra attrazione e soddisfazione. E delle conseguenze che derivano dal scegliere l'una o l'altra come metro di valutazione